Due mesi fa tornavo dal mio viaggio a Tokyo, visitando fiere incontrando persone conoscendo culture: ecco le mie memorie dal mio sol levante.

(se vuoi aggiungere della musica alla lettura, ti propongo queste – tutte shazammate mentre ero in Giappone)

E’ da una vita, letteralmente una vita, che non scrivo. E temo di non essere più in grado. Non essere più in grado di tradurre in parole quelle immagini, quelle sensazioni, che una settimana di visite, incontri, osservazioni, cene, scambi, esperienze vissute a Tokyo. Ma vale la pena provarci.

Primo, ho fatto l’errore essenziale, dirimente: non ho scritto subito, e questo produrrà inevitabili effetti sulla resa di quanto scriverò, ma tant’è.

Tokyo è lontana, Tokyo è un caleidoscopio, Tokyo è infinita, Tokyo è perfetta, Tokyo è fumetto, Tokyo è un altro mondo dentro al nostro stesso mondo. Sono tutte affermazioni vere, e non so cosa abbia senso far prevalere sulle altre. Tokyo contiene moltitudini, ma tutte in rigoroso ordine.

Oltre ad amare gli alberi in fiore, c’è da dire che a Tokyo sono precisi: un taxista ha ravanato nel bussolotto delle monete per trovare quella da 10 yen per il resto, e calcolate che ce ne vogliono 160 per fare un euro. A cena, una cameriera si è fermata davanti al nostro tavolo per spostare un bicchiere, che evidentemente riteneva troppo fuori asse rispetto al sottobicchiere. Tutto un lavoro così, dopo un pò diventi preciso anche tu, per forza.

Poi, l’impressione macro, l’affrescata generale, è quella di un altro mondo nel mondo anche nostro, una vera scoperta. Ora, immaginate: tre ordini di ideogrammi per scrivere; la distanza sempre volontariamente mantenuta dalle religioni e da ciò che possono comportare o alleviare; una cultura di purezza che porta velocemente verso estremismi sia positivi, sia negativi; un paese ben più che nazionalista, rimasto volontariamente isolato dal mondo per oltre due secoli con il Sakoku, una vera e propria blindatura durata fino a meno di 200 anni fa; un antagonismo con buona parte del resto del mondo, ocidentale o di mezzo che fosse, con conseguenze che tutti sapete e — nonostante questo — un apparente approccio zen e pacifico su tutte le cose immanenti della vita. Come fa a non essere così diverso da noi? E’ quasi un miracolo che abbia punti di contatto, viene presto da pensare: ed infatti è così. Tra l’altro, se tu che leggi fossi blindato dentro a qualcosa per lungo tempo, pensi ti sentiresti più protetto, o isolato? Io onestamente ho pensato subito a questa cosa.

Devo dire che la città è magnificente, infinita, scenica in certi quartieri, pulita, sicurissima, efficente, rispettosa, clamorosa, dilagante, silenziosa, luminescente, ricca di architettura, urbanistica raffinata ma, in fondo, povera di opere “simboliche” come le intendiamo noi. Se immaginate che questo coso che vedete sopra, la Tokyo Tower, evidentemente ispirata a un’altra torre, appare su tutti i magneti, cartoline, immagini della capitale, questo un pochino fa pensare.. certo c’è anche la più recente Skytree, nella zona a est dove vive Hiramaya di “Perfct Days” (l’hai visto? ci torneremo), ma insomma mancano quei simbolo potenti, iconici e clamorosi che connotano certe altre capitali del mondo. E’ voluto per (non) dare significato estetico dell’approccio giapponese alle cose sfacciate? Può essere. Certo, avrebbero pure un enorme waterfront, ma un pò perchè negli anni hanno rubato mare compattando rifiuti e creando nuove aree per costruire, un pò per una loro visione diversa (ecco che torna) del mare, non ci hanno pensato minimamente di creare qualcosa del genere. E ci si rimane male, mentre si entra nell’ennesima metro sotterranea.

Un paese si diceva, con un rapporto diverso verso il mondo, le cose, le attitudini e le emozioni. Ma anche un paese in cui il rapporto verso di sé è diverso. GGuardate questo cesso: ha una presa elettrica, e per quanto mi è dato di sapere avviene solo qui. Eccerto, perchè quando ti siedi per fare le tue cose, qua hanno un rispetto per il tuo internocoscia tale da farti trovare la tazza riscaldata, la spruzzatina intranatiche rigogliosa o soave, simpatiche suonerie per alleviare le possibili trombette che si azionano durante l’espletamento, addirittura una scelta musicale per intrattenerti, qualora le cose andassero per le lunghe. Il tutto, in un contesto di pulizia senza senso, sia che ci si trovi in hotel a 4 stelle sia che si entri nei servizi della metro, della fiera, del ristorante. Penso che il Giappone sia il paradiso dei culi femminili, con rispetto parlando.

Ma dunque cos’è questa: maniacalità nella cura di sé? Stranezza nata chissà perchè? retaggio di qualche abitudine del passato, trasposta in epoca dei supporti elettronici? E chi lo sa. Fatto sta, restando in tema, che a Tokyo ho scoperto altre unicità: il Giappone è un paese enormemente industriale (dai citami le prime tre marche giapponesi che ti vengono in mente!), un pò svanito dall’avvento dell’elettronica, del tutto assente nell’epoca del web e dei dati. O almeno, così mi è parso, anche paragonandolo alle tigri coreane così attive in questo senso.

Tokyo e il Giappone sono un pò rimaste come in quei tempi in cui la moda era l’orologino al polso Casio con il calcolatore incorporato, coi tastini così piccoli che poi era impossibile utilizzarlo. O come quando si usciva con la console Nintendo e la si infilava nelle tasche dei giubbotti, ma era bella ingombante e ci volevano 10 milalire di pile alcaline per giocare una mezz’oretta. Però chattano tutti e regalano dati allo Zio Sam, che gli ha fatto parecchio male e parecchie volte.

Anzi, se vogliamo dirla tutta, l’occhio viene strizzato per certi aspetti più verso il passato, come appunto Hirayama in Perfect Days con la sua Olympus ingombrante, che verso il futuro da immaginare. Come accoppiare tutto questo con lo stereotipo di Tokyo come terra della tecnologia che ho sempre avuto? Non lo so, ma intanto vedo una insegna interessante

Di Giancarlo Pizzeria Tokyo ce n’è davvero a migliaia di migliaia, e penso siano davvero il contrappasso che viviamo noi rispetto alla somministrazione di ristoranti giapponesi che ci perseguita ormai da 30 anni in Italia. Intendo dire: ogni tanto c’è davvero un italiano dentro, o un europeo/mediterraneo che ha contezza di cucina italiana; molto più spesso ci sono proprietari cinesi, americani e giapponesi che rassicurano sulla autenticità dei loro prodotti, mentre io chiudo la porta dietro di me e li saluto. E poi, c’è una passione sconfinata, direi amore per l’Italia e tutto quello che è italiano, è icona italiana o suona italiano: una toelettatura cani che si chiama MINIMO, una gelateria con insegna ZETTERIA, un bar APPOSTO e tutto un lavoro così, da est ad ovest e da sopa a sotto (perchè sì, a Tokyo un palazzo di sei piani può contenere sei bar e ristoranti, uno per piano). Come nel resto del mondo il nostro softpower è così potente che tutti immaginano una levità italica declinata nel loro personale sogno mentre acquistano una Ferrari o una vespa usata, o mentre addentano un gelato prodotto da ragazzi filippini. Più viaggio, più ritengo che l’Italia rappresenti la levità, l’eleganza e il senso immortale di Dolce Vita nel mondo. Organizzandosi un minimo, potremmo davvero vivere di quello (che poi, già lo facciamo).

E poi il cibo: è ovunque, sempre proposto sempre confezionato (non va benissimo con gli aspetti di sostenibilità, repressi dalla fobia per la pulizia) e sempre disponibile. Riprodotto su piatti di cera per i più dubbiosi, in vetrine illuminate; fotografato da ogni angolo e in ogni menù; proposto da ogni cartellone pubblicitario.. ma al contempo assente. Perchè, vi chiederete? Perchè, questo l’ho scoperto stando a contatto con cittadini di Tokyo per 4 giorni, loro non mangiano MAI. Al quarto giorno, infine, ho interrogato l’ainterprete: mi ha confessato che lui mangia solo la mattina, spesso pesce, e sta benissimo così. Ed ecco, bella spiegata, l’universalmente riconosciuta magrezza nipponica.

E infine passiamo alla cosa sempre più interessante, le persone. A Tokyo sono in tanti, tantissimi, ma tutti pare siano estremamente rispettosi di sè, delle distanze, degli altri, delle cose e delle situazioni. Per ogni aspetto che li riguarda, hanno un approccio che può virare verso un riconoscimento di vera qualità ed essenza nel loro comportamento, come nello straniamento visto un pò come forzatura che porta verso estremi non sempre sani. E’ difficile da spiegare, e se non hai visto Perfect Days di certo è inutile (vallo a vedere!) ma osservare il cielo, gli alberi e ascoltare belle canzoni mentre si sta un attimo in equilibrio sul momento, là ha più senso che in qualsiasi altro posto.

Il momento più catartico del mio viaggio di lavoro, sotto questo profilo, è stato il momento in cui, con la funzionaria dell’agenzia governativa che mi aiutava nell’agenda di incontri, ci si è messi a parlare di cinema e lei, con quel tono un pò così e quella testa un pò di traverso mi ha detto, in perfetto italiano “in fondo la mia vità non è tanto diversa da quella di Hirayama, il protagonista di Perfect Days. A proposito, interessa vedere le famose toilets del film?”.

Sul momento non ci ho fatto caso, poi ho compreso quanto significato, pur non decrittandolo appieno, ci fosse in quella dichiarazione. Una frase molto giapponese, ma di una cittadina di una metropoli che ora volge uno sguardo verso il cosmopolitismo. Dal buco della serratura forse, ma non è più tutto perso e distante come in Lost in Tranlation, ora un pò di luce arriva. Una città immensa e un paese unico e ineffabile guarda un pò fuori, oltre a contemplare il momento, la natura e sé.

“Adesso è adesso, un’altra volta è un’altra volta”

Penso continui a non significare nulla questa frase, ma qui, in questo posto, risulta affascinante e viene da pensare che si incastri perfettamente. Nel loro modo di rappresentare le cose coi fumetti, nei loro simbolismi, nel mare come fortezza e nel non voler cedere mai a un’idea o una parola, rischiando di perdersi. Tokyo è ambivalente, ma vale la pena di compiere un lungo viaggio per abbracciare, attenti a non stringere, quell’altro mondo nel nostro mondo.

Bonus track, questa